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“Un lavoro che non ci soddisfa comunque ci rassicura e ci rende difficile superarne i confini per affrontare l’ignoto del nostro sogno, del progetto di vita che abbiamo nel cassetto e che sappiamo potrebbe riempire di senso la nostra vita lavorativa”
Durante i corsi aziendali utilizzo uno schema di presentazione dei partecipanti che rende più divertente e simpatico il temutissimo “giro di tavolo” iniziale: chiedo ai partecipanti che cosa vogliono sapere degli altri e annoto su una lavagna a fogli mobili i punti che escono fuori.
Una delle domande più gettonate, trattandosi di corsi aziendali, è quella del “Che cosa fai in azienda”, cioè quale funzioni ricopri, che è come chiedere “Quanto vali, quanto conti?”.
Trovo utile stravolgere il gioco aggiungendo al “Che cosa fai” un inquietante “Perché?”, e ne spiego rapidamente il senso.
Perché fai il lavoro che fai?
Sembra quasi uno scioglilingua, ma farsi questa domanda significa chiedersi: che cosa ti ha portato a fare quello che fai?
Ti sei mai chiesto, per esempio, se quello che fai è frutto di un disegno, di un progetto o se invece deriva dall’aver passivamente subito quello che ti ha offerto l’azienda, quello che ti è passivamente capitato?
La domanda è sicuramente inquietante, ma ti assicuro che sono più inquietanti le risposte che raccolgo.
Pur non avendo mai effettuato una rilevazione sistematica, l’impressione è che circa l’80% delle persone che mi rispondono non abbiano consapevolmente scelto di fare quello che fanno per otto o dieci ore al giorno, 220 giorni l’anno!
Molti ammettono che l’attività che svolgono è frutto diretto o indiretto – e alcuni hanno 20 anni di lavoro alle spalle! – di occasioni, di curricula inviati a caso, di scelte aziendali subite, di vincoli familiari che hanno impedito di cambiare strade sbagliate, di insicurezze, di abitudine.
Tutto questo è comprensibile, ma la giustificazione razionale non basta a farci accettare serenamente le conseguenze del non avere scelto la vita che facciamo.
Chi non ha fatto scelte consapevoli è più insoddisfatto del suo lavoro
Sono infatti proprio le persone che non hanno fatto scelte consapevoli, e che non hanno “deciso”, quelle a essere più demotivate e insoddisfatte del proprio lavoro e talvolta della propria vita.
Mi è rimasto sempre impresso quello che mi ha raccontato il brillante Direttore Vendite di un’azienda multinazionale una sera a cena. Complice il vino, mi ha confessato di aver sempre voluto fare il ricercatore. Il suo progetto di vita era quello di lavorare all’università nella ricerca avanzata e, mentre me lo raccontava, aveva gli occhi che brillavano di una luce che non avevo mai visto nei tre giorni di corso che aveva frequentato con me.
Quando gli ho chiesto perché aveva rinunciato ai suoi sogni, la luce è scomparsa e mi ha raccontato una “triste” storia di successi aziendali e di guadagni sempre maggiori, che non gli hanno permesso di “scendere dal treno sbagliato” su cui era salito accettando quella posizione di venditore che gli era stata offerta ben 23 anni fa.
Accettata “così, mentre aspetto di trovare il mio lavoro”, poi il matrimonio, il mutuo, i figli, la casa al mare, le comodità a cui non si può rinunciare, hanno portato un ricercatore idealista a diventare un grigio e triste dirigente di mezza età alle prese con i rimpianti.
Cosa ci rende così difficile decidere e prendere in mano la nostra vita lavorativa?
Come mai sono ancora relativamente poche le persone che, nonostante la demotivazione e la noia, dicono basta e cambiano radicalmente la propria attività?
Mi sono reso conto che le aziende sono piene di “sogni imprenditoriali” non realizzati, di invenzioni non inventate e di sogni di vita alternativa non vissuti.
Perché?
Un altro fenomeno che ho osservato è come interruzioni traumatiche del rapporto di lavoro (licenziamenti collettivi, mobilità, chiusura di aziende) in alcuni casi, purtroppo non frequenti, hanno reso felici le persone interessate.
Senza più alternative e con qualche soldo di buonuscita, qualcuno è riuscito a mettere in atto i suoi sogni, a seguire il suo progetto di vita, cosa che non avrebbe mai avuto il coraggio di fare se la vita non lo avesse obbligato.
(Leggi anche “Come cambiare la tua vita professionale (questa volta veramente)”)
Perché ci lamentiamo del lavoro senza avere il coraggio di cambiare
Ci lamentiamo tutti i giorni, odiamo il capo, l’azienda ci soffoca, ci vengono richiesti sforzi sempre più onerosi con risorse sempre più scarse, ma nonostante tutto non abbiamo la spinta a seguire i nostri progetti, non abbiamo il coraggio di cambiare?
Cambiare non è semplice, quello che incute timore è l’ignoto che ci attende, il pessimismo che ci affligge ci proietta i filmati di tutto ciò che potrebbe andare male in modo più vivido e chiaro rispetto agli sbiaditi filmati dei possibili successi.
Una teoria che trovo molto utile dice che, anche se la nostra vita attuale è fonte di sofferenze e di lamentele continue, ci è nota e ci rassicura. Le nostre sofferenze e insoddisfazioni quotidiane le conosciamo e quindi creano meno apprensione dell’ignoto.
Non cambiare azienda o lavoro ti permette di rimanere nella tua “zona di comfort”
Comfort non significa “stare bene”, ma “essere a proprio agio”: le cose che mi fanno soffrire però le conosco, ho imparato ad affrontarle e paradossalmente mi incutono meno timore del forse più piacevole ignoto.
Il punto è che, “ristagnando” all’interno della nostra zona di comfort, non cresciamo, non evolviamo, non apriamo le porte al mondo.
La crescita è sofferenza: crescere vuol dire rischiare e uscire dalla zona di comfort per affrontare tutto ciò che il mondo può portarci di buono e di cattivo (e di solito vediamo prima il cattivo del buono!).
In sintesi, il lavoro che non ci soddisfa rappresenta comunque un’enorme zona di comfort che ci rassicura e che ci rende faticoso superarne i confini per affrontare l’ignoto del nostro sogno, del nostro progetto di vita che potrebbe ridarci la motivazione della progettualità.
Credo che chi è demotivato e insoddisfatto della propria vita lavorativa debba ricercare nei ricordi di bambino o di adolescente il proprio progetto di vita originario e costruirne una versione compatibile con la propria situazione attuale.
Un lavoro difficile, ma importante.
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Fiorentino, con dieci anni di azienda alle spalle in area HR, ha deciso di cambiare vita al cambio del millennio e seguire la propria passione di ‘insegnare’. Con Claudio Vernata ha fondato AdActa Consulting, una entusiasmante nuova avventura, nella quale valorizzare l’esperienza di quindici anni di aula e, al tempo stesso, confrontarsi con nuove idee, metodi e persone. Anni di progettazione e gestione di percorsi di formazione e sviluppo per numerose aziende lo hanno convinto che per fare questo mestiere ci vuole passione e impegno ma soprattutto bisogna… divertirsi.