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“Non si lascia mai un’azienda… si lascia sempre un capo”
Chiunque ha, o ha avuto, un capo nella propria vita lavorativa ha ben presente il problema: da un lato vorremmo una persona sicura ed autorevole che sia più brava di noi, che sappia insegnarci quello che non sappiamo risolvendoci i problemi quando siamo in difficoltà.
Dall’altro lato però vorremmo qualcuno che si fidi totalmente di noi, che ci dia autonomia e che sia flessibile e accogliente nei confronti dei nostri difetti.
Giusto?
La brutta notizia è che di capi così ne esistono molto pochi e sicuramente, per un qualche corollario della famosa legge di Murphy, non sono capitati a noi.
Le aspettative sul nostro capo sono spesso eccessive
È inutile scomodare illustri psicologi per capire che spesso nel capo “vediamo” la parte più autoritaria della figura genitoriale.
Vorremmo quindi che il capo fosse il genitore buono, autorevole e capace che ci lascia tutta l’autonomia ma che è pronto a correre in nostro aiuto per tirarci fuori dai guai.
Questa visione personale si scontra però con la realtà delle organizzazioni.
Le aziende scelgono le figure gerarchiche non certo per far fare da “genitore” ai propri dipendenti, bensì per raggiungere i propri obiettivi coordinando e controllando le risorse assegnate.
Attenzione a non sopravvalutare il supporto che un capo può darci
Diciamocelo, il capo è una figura che condiziona pesantemente e palesemente la qualità della nostra vita lavorativa (e spesso non solo quella!).
Come spesso succede Il punto chiave del nostro rapporto con il capo è correlato alle aspettative che riversiamo in questa figura.
Per questo non dobbiamo dimenticare ciò che dicono alcuni studi specifici sul problema: molti collaboratori tendono a sopravvalutare il tipo di supporto e di attenzione che il capo può dare.
Durante gli incontri di coaching che ho con diverse figure professionali, esce immancabilmente il tema del capo: i collaboratori tendono a riversare sul proprio capo una lunga serie di critiche e di spiegazioni (forse alibi?) per i propri insuccessi o demotivazioni.
Di fronte alla domanda “E tu cosa hai fatto per tentare di risolvere questa situazione?” la risposta è immancabilmente la stessa: “Io? Il capo è lui, il potere lo ha lui e quindi deve essere lui a risolvere il problema!”.
Non è vero!
Abbandoniamo la visione passiva del rapporto con il capo
Bisogna ricordare che in qualsiasi rapporto interpersonale prolungato, anche con persone che hanno una posizione gerarchica o un potere maggiore del nostro, ognuno di noi ha il 50% di responsabilità nella qualità e nel risultato di questi rapporti.
In ogni relazione interpersonale si instaura un influenzamento reciproco che condiziona la qualità della relazione.
Se tendo ad essere aggressivo e critico porterò l’altro ad esserlo altrettanto e il suo atteggiamento porterà me ad aumentare ancora di più l’aggressività in un crescendo che nelle tecniche comunicative si definisce Circolarità.
La relazione con il capo è una delle relazioni più importanti, se non la più importante, della nostra attività lavorativa e pertanto penso che convenga curarla attentamente applicando un po’ di metodo senza aspettare che siano il caso o gli avvenimenti a gestirla.
Come si fa ad impostare correttamente la relazione con il capo?
Philip Kotter, uno dei massimi esperti mondiali di leadership, ha pubblicato alcuni anni fa un articolo su Harvard Business Review dal titolo “La gestione del proprio capo”.
In questo articolo ci dà alcuni consigli che potrebbero sembrare banali ma che purtroppo sono spesso disattesi da molti.
Il capo è un essere umano come noi con i suoi pregi ed i suoi difetti: cerchiamo di capire come è fatto, quali sono le sue fisse, i suoi punti deboli e le sue capacità.
Vista la criticità della persona per la nostra qualità della vita è uno sforzo che vale la pena fare, ma da solo non basta.
Nella nostra relazione con il capo, come in tutte le relazioni interpersonali, i soggetti interessati sono due e l’altro siamo noi, è quindi importante (e questo a prescindere dal rapporto con il capo!) capire noi stessi, i nostri punti deboli, le nostre criticità e le nostre tendenze.
Una volta che abbiamo il quadro della comprensione dei due soggetti possiamo cercare di fare un ulteriore sforzo per individuare i metodi di comunicazione che possono rendere più efficace la relazione.
Come?
Evitiamo i punti di scontro e massimizziamo i punti di accordo con il nostro capo
Ovviamente dobbiamo ricordarci che, visto che il capo è lui/lei, siamo noi che per primi dovremmo modificare qualche nostro atteggiamento per renderlo più compatibile con le sue esigenze.
Per esempio, se siamo particolarmente abili a parlare ma il nostro capo preferisce avere dei report scritti è inutile continuare a voler illustrare i risultati di un lavoro a voce!
Meglio se gli scriviamo un piccolo report dichiarandoci disponibili ad integrarlo di persona.
Se il capo è ansioso e ci accorgiamo che vuole controllare il nostro lavoro con una certa frequenza evitiamo di voler portare avanti la bandiera della nostra indipendenza perché è probabile che voglia controllare il nostro lavoro nel momento in cui siamo meno preparati.
Stabiliamo fin dall’inizio dei momenti di controllo precisi compatibili con la sua ansia e con la nostra necessità di non essere colti di sorpresa ed impreparati.
La nostra impreparazione infatti aumenterebbe la sua ansia di controllo nei nostri confronti e ridurrebbe la fiducia che ha in noi.
L’obiettivo è quella di trovare il metodo in grado di minimizzare i punti di conflitto e massimizzare i risultati per ciascuno.
Far funzionare una relazione professionale è spesso questione di metodo e forse la relazione con il capo richiede un livello di attenzione e cura superiore a qualunque altra relazione in azienda.
E tu, come gestisci la relazione con il tuo capo?
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Fiorentino, con dieci anni di azienda alle spalle in area HR, ha deciso di cambiare vita al cambio del millennio e seguire la propria passione di ‘insegnare’. Con Claudio Vernata ha fondato AdActa Consulting, una entusiasmante nuova avventura, nella quale valorizzare l’esperienza di quindici anni di aula e, al tempo stesso, confrontarsi con nuove idee, metodi e persone. Anni di progettazione e gestione di percorsi di formazione e sviluppo per numerose aziende lo hanno convinto che per fare questo mestiere ci vuole passione e impegno ma soprattutto bisogna… divertirsi.