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Qualche banale (ma non troppo) riflessione sulla “Great Resignation” - AdActa Consulting
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Leggo interessantissimi articoli sulla Great Resignation, fenomeno che ha preso il via – come sempre – oltreoceano e che si è propagato, come una pandemia sociale, nel nostro Paese.

Molti articoli osservano il fenomeno della Great Resignation dal punto di vista delle cause, ovvero che cosa spinge un dipendente a mettere in discussione la propria vita ed uscire un po’ dalla sua zona di comfort cambiando datore di lavoro, ad uscirne decisamente cambiando mestiere (diventando libero professionista/imprenditore) oppure a modificare drasticamente la propria vita cambiandola radicalmente.

Le analisi sulla Great Resignation sono di tipo quantitativo (consiglio l’indagine pubblicata da AIDP), ma esistono anche molte brillanti considerazioni dal punto di vista qualitativo fatte da ogni angolazione possibile. Nello stesso momento leggo articoli inquietanti sulla mancanza strutturale dei profili professionali più ricercati dalle aziende (cito a memoria cifre da 250 mila profili tecnico-ingegneristici mancanti in non ricordo quale lasso temporale… e mi viene solo da commentare che per il mercato del lavoro nostrano sono numeri enormi!).

Great Resignation: proviamo a unire i puntini?

Antiche memorie di economia politica mi rammentano la curva IS-LM, ovvero l’incontro della domanda e dell’offerta e le considerazioni fatte molti anni fa da D. Ricardo e A. Smith.

In molti anni ancora non ho capito come funziona la mia mente, ma la rappresentazione che unisce le due curve si concretizza nella nitida immagine del gioco delle sedie che facevamo alle feste della scuola media. Ma, osservandola bene, mi accorgo che non è quella classica.

Sullo sfondo c’è una folla di osservatori che non possono giocare e in campo qualche fortunato giocatore che – a differenza del gioco ufficiale – si ritrova a giocare con molte più sedie del numero dei partecipanti. La fretta di sedersi alla fine della musica è assente e lascia i più razionali a riflettere su quale sia la sedia migliore (magari provandone più d’una in un breve lasso di tempo), mentre i più “emotivi” rimangono in piedi apposta nonostante i caldi inviti delle “sedie” sapendo che, appena passa la botta di contrarietà, troveranno una o più sedie disposte ad accoglierli. Ma la cosa più inquietante sono gli osservatori, le persone che circondano i giocatori e che non hanno i titoli per giocare: nonostante vedano molte sedie libere, sanno che non potranno occuparle.

Mettiamoci adesso nei panni della sedia…

In questo gioco strano, ha senso puntare sull’imbottitura più comoda ed accogliente, sulla concessione di gadget e benefici sempre più estremi (ho sentito di total smart working con un giorno solo obbligatorio in sede… al mese!!!) e con sessioni di feedback continuo da parte di capi che hanno assunto il ruolo di ascoltatore professionista? Le sedie devono sopravvivere e, nel breve periodo, sono convinto che valga la pena sfruttare la situazione per aggiornare metodi di gestione e stili di leadership… ma nel medio-lungo termine può funzionare?

Che cosa fare nel medio/lungo periodo?

Non sono né genitore, né rettore, né politico, ma credo che il vero obiettivo sia cercare di riequilibrare la curva IS con la curva LM, ripensando ed invertendo alcune tendenze fondanti della nostra attuale società. Troppo complesso?

Sono consapevole di rischiare la gogna se provassi a suggerire ai genitori di impegnarsi a persuadere i “pargoli” ad iscriversi a quelle scuole/facoltà che nelle statistiche nazionali (disponibili online) mostrano risultati di collocamento post-formazione elevati, e mi guardo bene a dare indicazioni ai Magnifici su come strutturare un’offerta formativa più allineata alle esigenze del mercato.

Mi limito al campo che conosco meglio, quello aziendale.

Come? Per esempio non limitandosi ad investire in ambienti lavorativi cool (superati dalla richiesta di rimanere in smart working, quello vero), in sistemi del tipo “porta un amico ed avrai un premio”, in incentivi di tutti i tipi… ma rivedendo le proprie priorità in ottica di Contingency Plan e pensando ad azioni pratiche.

Mi limito a suggerire qualche esempio: velocizzare il timing dei processi di assunzione (neolaureati mi parlano del passaggio di mesi tra colloquio ed eventuale offerta), rinegoziare arcaiche classificazioni contrattuali, ma soprattutto ripensare alle superate sequenze stage/tempo determinato/ conferma a tempo indeterminato risalenti alle visioni economiche del secolo scorso.

Cos’altro? Andare alla fonte, collaborando con scuole/università per offrire casi aziendali e testimonianze aggiornate ed attuali (mi parlano di casi aziendali inesistenti e, se esistenti, superati e talvolta addirittura di antiquariato), puntare su Academy aziendali per la riqualificazione delle persone che non possono partecipare al gioco delle sedie e, al contempo, rendere più accessibili le osmosi tra le posizioni interne riducendo la complessità burocratica/processuale della job rotation e introducendo sistemi di formazione interna/mentoring efficaci (il profilo del formatore interno è raro e spesso demandato come “avanza-tempo” a persone che di mestiere fanno altro).

Mi direte che molte aziende lo stanno già facendo! Lo spero fortemente, perché si tratta di sopravvivenza, al pari di altri eventi economici e ambientali che – se non affrontati in ottica di risk management – potrebbero determinare la scomparsa di alcune o forse molte aziende.

Mi scuso per la banalità di queste riflessioni per alcuni di voi, ma – come formatore – mi sento in dovere di “svegliare la rana che sta galleggiando in una pentola d’acqua che sta lentamente ed impercettibilmente aumentando la temperatura, fino a bollire”.

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Leggo interessantissimi articoli sulla Great Resignation, fenomeno che ha preso il via – come sempre – oltreoceano e che si è propagato, come una pandemia sociale, nel nostro Paese.

Molti articoli osservano il fenomeno della Great Resignation dal punto di vista delle cause, ovvero che cosa spinge un dipendente a mettere in discussione la propria vita ed uscire un po’ dalla sua zona di comfort cambiando datore di lavoro, ad uscirne decisamente cambiando mestiere (diventando libero professionista/imprenditore) oppure a modificare drasticamente la propria vita cambiandola radicalmente. Le analisi sulla Great Resignation sono di tipo quantitativo (consiglio l’indagine pubblicata da AIDP), ma esistono anche molte brillanti considerazioni dal punto di vista qualitativo fatte da ogni angolazione possibile. Nello stesso momento leggo articoli inquietanti sulla mancanza strutturale dei profili professionali più ricercati dalle aziende (cito a memoria cifre da 250 mila profili tecnico-ingegneristici mancanti in non ricordo quale lasso temporale… e mi viene solo da commentare che per il mercato del lavoro nostrano sono numeri enormi!).

Great Resignation: proviamo a unire i puntini?

Antiche memorie di economia politica mi rammentano la curva IS-LM, ovvero l’incontro della domanda e dell’offerta e le considerazioni fatte molti anni fa da D. Ricardo e A. Smith. In molti anni ancora non ho capito come funziona la mia mente, ma la rappresentazione che unisce le due curve si concretizza nella nitida immagine del gioco delle sedie che facevamo alle feste della scuola media. Ma, osservandola bene, mi accorgo che non è quella classica. Sullo sfondo c’è una folla di osservatori che non possono giocare e in campo qualche fortunato giocatore che – a differenza del gioco ufficiale – si ritrova a giocare con molte più sedie del numero dei partecipanti. La fretta di sedersi alla fine della musica è assente e lascia i più razionali a riflettere su quale sia la sedia migliore (magari provandone più d’una in un breve lasso di tempo), mentre i più “emotivi” rimangono in piedi apposta nonostante i caldi inviti delle “sedie” sapendo che, appena passa la botta di contrarietà, troveranno una o più sedie disposte ad accoglierli. Ma la cosa più inquietante sono gli osservatori, le persone che circondano i giocatori e che non hanno i titoli per giocare: nonostante vedano molte sedie libere, sanno che non potranno occuparle.

Mettiamoci adesso nei panni della sedia…

In questo gioco strano, ha senso puntare sull’imbottitura più comoda ed accogliente, sulla concessione di gadget e benefici sempre più estremi (ho sentito di total smart working con un giorno solo obbligatorio in sede… al mese!!!) e con sessioni di feedback continuo da parte di capi che hanno assunto il ruolo di ascoltatore professionista? Le sedie devono sopravvivere e, nel breve periodo, sono convinto che valga la pena sfruttare la situazione per aggiornare metodi di gestione e stili di leadership… ma nel medio-lungo termine può funzionare?

Che cosa fare nel medio/lungo periodo?

Non sono né genitore, né rettore, né politico, ma credo che il vero obiettivo sia cercare di riequilibrare la curva IS con la curva LM, ripensando ed invertendo alcune tendenze fondanti della nostra attuale società. Troppo complesso? Sono consapevole di rischiare la gogna se provassi a suggerire ai genitori di impegnarsi a persuadere i “pargoli” ad iscriversi a quelle scuole/facoltà che nelle statistiche nazionali (disponibili online) mostrano risultati di collocamento post-formazione elevati, e mi guardo bene a dare indicazioni ai Magnifici su come strutturare un’offerta formativa più allineata alle esigenze del mercato. Mi limito al campo che conosco meglio, quello aziendale. Come? Per esempio non limitandosi ad investire in ambienti lavorativi cool (superati dalla richiesta di rimanere in smart working, quello vero), in sistemi del tipo “porta un amico ed avrai un premio”, in incentivi di tutti i tipi… ma rivedendo le proprie priorità in ottica di Contingency Plan e pensando ad azioni pratiche. Mi limito a suggerire qualche esempio: velocizzare il timing dei processi di assunzione (neolaureati mi parlano del passaggio di mesi tra colloquio ed eventuale offerta), rinegoziare arcaiche classificazioni contrattuali, ma soprattutto ripensare alle superate sequenze stage/tempo determinato/ conferma a tempo indeterminato risalenti alle visioni economiche del secolo scorso. Cos’altro? Andare alla fonte, collaborando con scuole/università per offrire casi aziendali e testimonianze aggiornate ed attuali (mi parlano di casi aziendali inesistenti e, se esistenti, superati e talvolta addirittura di antiquariato), puntare su Academy aziendali per la riqualificazione delle persone che non possono partecipare al gioco delle sedie e, al contempo, rendere più accessibili le osmosi tra le posizioni interne riducendo la complessità burocratica/processuale della job rotation e introducendo sistemi di formazione interna/mentoring efficaci (il profilo del formatore interno è raro e spesso demandato come “avanza-tempo” a persone che di mestiere fanno altro). Mi direte che molte aziende lo stanno già facendo! Lo spero fortemente, perché si tratta di sopravvivenza, al pari di altri eventi economici e ambientali che – se non affrontati in ottica di risk management – potrebbero determinare la scomparsa di alcune o forse molte aziende. Mi scuso per la banalità di queste riflessioni per alcuni di voi, ma – come formatore – mi sento in dovere di “svegliare la rana che sta galleggiando in una pentola d’acqua che sta lentamente ed impercettibilmente aumentando la temperatura, fino a bollire”. Questo articolo ti è piaciuto e hai qualcuno a cui consigliarlo (un collega o magari il tuo capo)? 🙂Condividilo! [/tatsu_text][/tatsu_column][/tatsu_row][/tatsu_section]
AdActa-Leonardo-Paoletti
Leonardo Paoletti

Fiorentino, con dieci anni di azienda alle spalle in area HR, ha deciso di cambiare vita al cambio del millennio e seguire la propria passione di ‘insegnare’. Con Claudio Vernata ha fondato AdActa Consulting, una entusiasmante nuova avventura, nella quale valorizzare l’esperienza di quindici anni di aula e, al tempo stesso, confrontarsi con nuove idee, metodi e persone. Anni di progettazione e gestione di percorsi di formazione e sviluppo per numerose aziende lo hanno convinto che per fare questo mestiere ci vuole passione e impegno ma soprattutto bisogna… divertirsi.